Un’antica tradizione siciliana in onore di Santa Lucia è il consumo di un piatto gastronomico conosciuto come “cuccìa”. Si tratta di un piatto povero realizzato con del grano bollito Tante sono le ipotesi da cui deriva questo termine. Alcuni ritengono che l’etimologia derivi dall’arabo kiskiya polenta di grano, o dal greco kokkìa frumento bollito. Secondo altri invece, deriverebbe dal termine “cuccìu” (ossia chicco in siciliano) di grano. Mentre la derivazione di “cuccìa” dal greco ta ko(u)kkía (i grani) è ormai definitivamente accertata e sostenuta unanimemente dagli studiosi moderni.
Secondo la tradizione conosciuta come “Il miracolo della fine della carestia dell’anno 1646”, il 1646 fu un anno particolarmente calamitoso per la Sicilia a causa di una grave carestia, aggravatasi per la minore disponibilità di carne in seguito ad una moria che distrusse quasi tutti gli allevamenti bovini. Siracusa era allo stremo. Allora il vescovo monsignor Francesco Elia de’ Rossi chiamò il popolo alla preghiera, facendo esporre, sull’altare maggiore della cattedrale, l’argenteo simulacro di santa Lucia e indusse 8 giorni di suppliche. La mattina del 13 maggio 1646, mentre la cattedrale era gremita per la messa solenne, fu vista aleggiare una colomba tre o quattro volte finché si posò sul capo del vescovo. Quasi all’istante si sparse la voce che una nave carica di grano e legumi era approdata nel porto di Siracusa. La folla si commosse, gridò al miracolo e ringraziò santa Lucia. Per poterlo consumare immediatamente, il grano non fu macinato ma bollito e mangiato. Da allora si associa il consumo del grano bollito alla festa di santa Lucia. In realtà li consumo di grano bollito ha radici molto più antiche. Grano mescolato con latte si mangiava e si mangia anche in Egitto e in Tunisia. Questo piatto si chiama “kesc”. La cuccìa risulta parente stretta anche della kóllyva greca, una vivanda a base di «grano cotto, spesso mescolato con chicchi di melograno, di uva passa, farina, zucchero in polvere, ecc., che si porta su un vassoio in chiesa alla fine di una messa di requie e si distribuisce ai presenti a glorificazione dei defunti», e della kutjà russa, che era a base di grano (o miglio, orzo, riso) bollito.
L’esistenza della cuccìa, o di un cibo equipollente nella sua essenza, è certamente molto più antica della prima attestazione scritta, che troviamo nel Vocabolario siciliano e latino di Lucio Scobar stampato a Venezia nel 1519, dove cuchia (il digramma ch era pronunciato c in antico siciliano) è chiosata “triticum decoctum” (grano bollito). La cuccìa mette in gioco un doppio rapporto da un lato con la Santa e dall’altro (e più antico) con le potenze del sottosuolo cui si chiede protezione per il raccolto futuro…. un rapporto con i morti. Non a caso in molti paesi siciliani e pugliesi la cuccia si fa anche per i morti ed è detta grano dei morti. Nella Sicilia contadina si credeva che fossero i morti a rendere possibile la germinazione del grano spingendo il seme da sotto terra e non a caso essi si festeggiavano all’inizio della semina e si scacciavano sotto terra, ritualmente, soltanto in seguito. I morti e i santi erano le figure necessarie perché “tutto andasse bene” nei campi, e bisognava ingraziarseli. Santa Lucia, patrona contro le carestie, è onorata nel modo più classico: si consumano in suo onore abbondanti provviste perché non manchino quelle nuove, perché i campi producano il necessario, perché torni il grano nelle dispense. Un po’ come San Giuseppe apre le porte alla rinascita primaverile, e le sue tavole ornate fanno mostra di fertilità perché la terra si svegli, così Santa Lucia prefigura quella rinascita mantenendo in potenza i prodotti. L’ipotesi del significato augurale della cuccia è confermata da alcuni usi a essa connessi: si prepara per voto personale e si distribuisce ad amici e parenti in recipienti che devono tornare al proprietario sporchi e mai lavati (toglierebbe Provvidenza) o può essere benedetta in chiesa e consumarla sul posto, in atto devozionale.
La tradizione siciliana vuole che il grano venga tenuto in ammollo nei tre giorni precedenti la festa, cambiando l’acqua ogni giorno, per farlo ammorbidire. Quando è gonfio si eliminano le spoglie, ossia “la pula”, per lasciare così solo il cuore del chicco di grano. Poi si cuoce a lungo in grandi pentole e si consuma con un filo di olio. Questa è la versione salata. Esiste anche in alcuni paesi siciliani la versione dolce. Dopo aver bollito il grano, la cuccìa così ottenuta è condita con crema di ricotta e spolverizzata con cannella.
A Barrafranca (EN) alcuni usano mettere il grano in ammollo il giorno prima o la mattina del 12 dicembre. Anticamente il grano era “scanalato”, ossia il grano rigonfio di acqua era sfregato “nu canali” (antica tegola di terracotta girata dalla parte più ruvida), per eliminare le spoglie. Poi in grandi “cadarua” era bollito a lungo e consumato solo con un filo di olio. C’è chi usa condirlo con legumi, tradizione che si ritrova in altri paesi siciliani. Gli anziani barresi sostengono che la vera “cuccìa” è quella semplice, condita con un filo d’olio. In un’intervista realizzata nel dicembre 1996 dal professor Ignazio E. Buttitta ad alcuni anziani barresi sul consumo della “cuccìa”, questi rispondono: «C’è quello che segue l’uso antico: Santa Lucia era vergine e la dobbiamo mangiare bollita; c’è quello che non ci tiene al fatto della verginità e la condisce diversamente con ciò che gli piace, ma la vera cuccia è quella con il solo frumento, logicamente con un po’ di olio». Prima di essere utilizzata come piatto rituale legato a santa Lucia e consumato solo quel giorno, a “cuccìa” era un piatto usato comunemente dai contadini, poiché piatto povero e di facile preparazione.
FONTI: Alberto Vàrvaro, Vocabolario etimologico siciliano, Palermo, 1986, vol. I, s. vc; Luigi Milanesi, Dizionario Etimologico della lingua siciliana, Mnamon, 2015; Maria Ivana Tanga, Il Grano e la Dea, aprile 2018; Vladimir Ja. Propp, Feste agrarie russe, Bari, 1978; Angelo De Gubernatis, Storia comparata degli usi funebri in Italia e presso gli altri popoli indo-europei, Milano, 1878; Nuova edizione a cura di Alfonso Leone pubblicata col titolo Il vocabolario siciliano-latino di L.C. Scobar, Palermo, 1990; Ignazio E. Buttitta, Le fiamme dei santi. Usi rituali del fuoco in Sicilia, 1999.
RITA BEVILACQUA