OPERAZIONE HUSKY: LA BATTAGLIA DI GELA 10 – 12 luglio 1943

OPERAZIONE HUSKY: LA BATTAGLIA DI GELA 10 – 12 luglio 1943

- in Barrafranca

di Salvatore Marotta

PREMESSA
La Storia, quella con la S maiuscola, si prende sempre la rivincita sulla propaganda. Da più parti è stato giustamente osservato come l’invasione della Sicilia del luglio 1943 sia la pagina più sconosciuta e vilipesa della seconda guerra mondiale. Per decenni, una propaganda falsa e faziosa ha occultato la verità storica (basti a questo proposito ricordare le Foibe) e presentato l’invasione anglo-americana della Sicilia come una specie di “passeggiata” o di “marcia trionfale” tra ali plaudenti di folla. Niente di più falso. Le cose, come vedremo, andarono esattamente all’opposto. A fronte di episodi di disfattismo e diserzione, presenti in tutti gli eserciti del mondo, i nostri soldati, nella stragrande maggioranza, fecero per intero il loro dovere, spesso fino all’estremo sacrificio della vita. Non solo si è preteso di rimuovere l’eroismo dei nostri militari (quello che in un suo libro Pier Luigi Villari ha chiamato “L’onore dimenticato”), ma lo stesso si è fatto minimizzando le collusioni e gli accordi tra Forze armate USA e mafia italo-americana e separatisti siciliani, tacendo  le stragi contro militari e civili inermi, le “marocchinate” che proprio in Sicilia conobbero il loro tragico inizio e potremmo continuare. Una vergogna che peserà per sempre sulla storiografia “ufficiale” e su chi, per cupidigia di servilismo nei confronti dei vincitori, ha chiamato – e continua a farlo! – gli invasori “liberatori”. Come si è detto, la verità storica alla fine viene sempre alla luce e oggi, nell’ambito di un dibattito intellettualmente onesto e di una ricerca storiografica seria, di cui diamo conto nella bibliografia, certe posizioni non hanno più diritto di cittadinanza. Nel libro “HUSKY 10 luglio 1943. I militari italiani e la difesa della Sicilia”, che rappresenta uno dei migliori e più completi contributi sull’invasione della Sicilia, l’autore Pier Luigi Villari, in riferimento alla “vulgata” propagandistica cui ci siamo riferiti, così conclude il suo lavoro: “Ci auguriamo che oggi, dopo tanti anni, queste posizioni siano ormai superate. Gli anglo-americani, come abbiamo visto, furono impegnati per ben 38 giorni e solo l’enorme superiorità permise loro il successo finale”. In questo articolo rievochiamo i primi giorni dell’invasione passati alla Storia come “la battaglia di Gela”, dove i nostri fanti della “Divisione Livorno”, insieme alle truppe costiere e a quelle di rinforzo, scrissero con il sangue una delle pagine più eroiche della storia militare italiana, che deve essere conosciuta, rispettata e onorata.

LO SBARCO E LA REAZIONE ITALO-TEDESCA
Dopo aver conquistato le postazioni strategiche di Pantelleria e Lampedusa, preceduta da intensi bombardamenti sulle città siciliane grandi e piccole, atti a fiaccare il morale della popolazione, nella notte tra il 9 e 10 luglio 1943 aveva inizio la cosiddetta “Operazione HUSKY”, nome in codice dell’invasione della Sicilia, decisa nel gennaio del 1943 nella Conferenza di Casablanca, dove a prevalere fu la tesi britannica secondo cui l’assalto alla “Fortezza Europa” dovesse iniziare proprio dalla Sicilia. Il premier inglese Churchill era certo, infatti, che lo sbarco in Sicilia avrebbe provocato la caduta di Mussolini e l’estromissione dell’Italia dalla guerra. Questa certezza, ovviamente, gli proveniva da una base informativa e diplomatica che aveva visto, nei mesi precedenti lo sbarco, i traccheggi di Casa Savoia, in particolare della principessa Maria José e del Duca Aimone di Savoia d’Aosta (che aveva ereditato il titolo dal fratello Amedeo morto un anno prima), dal maresciallo Badoglio e dal capo dei separatisti siciliani, Andrea Finocchiaro Aprile. (Cfr. Franco Bandini, “Lo sbarco in Sicilia, Mursia 2011). Quando si arriva al 25 luglio con la caduta di Mussolini e all’otto settembre con la firma dell’armistizio, tutto faceva parte di un disegno preordinato da tempo. Insomma, al di là della sproporzione di forze, i nostri eroi si apprestavano a combattere una battaglia che era già persa in partenza. “HUSKY” fu la più grande operazione anfibia della storia, seconda solo allo sbarco in Normandia del giugno successivo. Impressionante la forza di sbarco: 160.000 uomini per l’attacco iniziale su un totale di 467.000; 2775 navi da trasporto, 280 navi da guerra, 1800 mezzi da sbarco, 600 carri armati, 1800 cannoni, 4000 aerei e 14mila veicoli di ogni genere. Comandante in capo dell’Operazione il generale americano Eisenhower, le forze terrestri sotto il comando del generale Harold Alexander erano costituite dalla settima armata americana del generale George Patton e dall’ottava armata britannica del generale Bernard Law Montgomery. I difensori italo-tedeschi, sotto il comando italiano del generale Alfredo Guzzoni, potevano contare su 97.000-98.000 uomini appartenenti a quattro divisioni di fanteria italiane (Aosta, Assietta, Napoli e Livorno), due divisioni corazzate tedesche (Sizilien e Hermann Goering); lungo la costa erano posizionate cinque divisioni costiere, ma in una costa lunga oltre mille chilometri la difesa risultava debole ovunque. Gli aerei ancora efficienti che si erano salvati dal diluvio di bombe sganciate sulla Sicilia risultavano essere un’ottantina italiani e altrettanto tedeschi, ma nonostante l’assoluta inferiorità, i nostri piloti si prodigarono oltre ogni limite infliggendo pesanti perdite alle navi nemiche. Il mancato intervento della flotta aprirebbe un lungo capitolo che esula dai limiti del presente scritto, anche se nostri sommergibili e qualche motosilurante si scontrarono con le forze nemiche. Come sistemazioni difensive erano stati approntati una serie di bunker, facenti parte ancora oggi del paesaggio, per controllare le spiagge e le vie di comunicazione verso l’entroterra. La postazione di Porta Marina avrà un tiro particolarmente efficace e una storia importante nella battaglia. Gela faceva parte della zona assegnata alla settima armata americana di Patton e precisamente alla colonna “Dime” composta dalla prima Divisione “Grande Uno Rosso” e da due Battaglioni di Rangers. Lo sbarco avvenne nelle prime ore del 10 luglio. Ma prima ancora dello sbarco era scattata un’altra operazione, cioè il lancio di alianti britannici con un carico di oltre duemila uomini e di circa 3.400 paracadutisti americani con il compito di occupare alcune postazioni chiave come ponti e aeroporti. L’operazione fu un disastro a causa dell’inesperienza dei piloti e del forte vento che sospinse aliantisti e paracadutisti lontano dagli obiettivi. Molti finirono in mare con l’annegamento di centinaia di soldati. Nonostante tutto, però, l’azione conseguì alcuni risultati perché nell’oscurità, attaccando le postazioni che via via incontravano crearono allarme e disorganizzazione nella difesa, ma l’obiettivo d’impedire un contrattacco o le comunicazioni tra le linee difensive fallì. Nemmeno un secondo lancio, nella notte tra l’11 e il 12 luglio ebbe fortuna. Gli aerei che trasportavano 2300 paracadutisti raggiunsero Gela poco dopo un attacco aereo tedesco sulle navi e subirono la reazione antiaerea perché scambiati per aerei tedeschi. Il “fuoco amico” provocò l’abbattimento di 23 velivoli e la morte di 500 soldati. Furono i paracadutisti della 82^ divisione i responsabili della prima strage di civili avvenuta nella Campagna D’Italia. “Il 10 luglio, poche ore dopo lo sbarco, vennero fucilati davanti a un casolare, non lontano dal ciglio della strada che congiunge Vittoria ad Acate, dodici civili. Tra questi il Podestà di Acate, Giuseppe Mangano e suo figlio di diciassette anni. Sembra che i militari americani fossero in stato di ebbrezza e avessero iniziato a maltrattare alcune donne a un posto di blocco. Alla reazione del Podestà sarebbe seguita la strage”. (Cfr. Andrea Augello, “Uccidi gli italiani. Gela 1943 – La battaglia dimenticata”). Nella strage venne ucciso anche il fratello del podestà, il medico Ernesto Mangano. In Sicilia, subito dopo lo sbarco e nei giorni seguenti ci furono molti eccidi di militari e civili inermi ad opera dei soldati americani. Alcuni di questi eccidi sono venuti alla luce, altri rimangono ancora sconosciuti. Il più grave è noto come “le stragi di Biscari”, presso l’aeroporto di Santo Pietro, dove il 14 luglio furono massacrati militari italiani e tedeschi caduti prigionieri dopo la battaglia per la difesa dell’aeroporto. Grazie all’indagine certosina condotta da Andrea Augello e resa nota nel libro già citato “Uccidi gli italiani” è stato possibile conoscere i nomi, compreso il grado e il reparto di 68 militari italiani e 4 tedeschi “abbattuti senza motivo e senza misericordia dai soldati della 45^ Divisione della Guardia nazionale americana”. Il giorno prima, nel Borgo Colonico di Piano Stella in territorio di Caltagirone, furono uccisi cinque civili disarmati davanti ad un bambino di 13 anni, Giuseppe Ciriacono, grazie alla cui testimonianza la strage è stata conosciuta. Ma torniamo allo sbarco. Solo alle prime luci dell’alba i soldati italiani avranno chiara la dimensione, spettacolare e agghiacciante allo stesso tempo, di ciò che sta accadendo: il mare di fronte a loro, fino all’orizzonte, è pieno di navi di ogni tipo e dimensione. Le truppe costiere fecero quel che umanamente era possibile fare e le medaglie al valore e i tanti morti testimoniano l’eroismo con cui si batterono, ma alla fine l’enorme superiorità delle forze attaccanti riuscì a sopraffare la difesa. Tra gli ultimi fortini a cadere, quello di Porta Marina difeso all’inverosimile dall’eroico caporal maggiore Cesare Pellegrini. Dopo aver sparato per quattro ore consecutive inchiodando il nemico sulla spiaggia e facendo strage tra gli invasori, venne sorpreso alle spalle e pugnalato da un soldato americano, probabilmente uno di quei paracadutisti atterrati poche ore prima. Cesare Pellegrini morì aggrappato alla sua mitragliatrice. A Porta Marina, nel dopoguerra, è stata apposta una lapide che recita:

“Addì 10 luglio 1943. Dal fortino antistante questa Porta Marina vetusta il Cap. Magg. Cesare Pellegrini respingeva animoso assalti reiterati di marines innumeri sbarcanti. Pugnale infertogli alle spalle fermava suo cuore intrepido e fida sua arma. Gela memore nel XX anniversario pose”.

 Intanto, superata la prima linea di difesa grazie alla potente artiglieria navale, i primi soldati americani avevano messo piede in città, ma dovettero combattere strada per strada, impegnati in conflitti a fuoco dai Carabinieri, dai militari e da esponenti della Milizia. Gli americani  sparavano a qualsiasi cosa fosse in movimento. A farne le spese, ancora una volta in una strage assurda e ingiustificata, una madre di vent’anni, Carmela Ferrara, con i suoi due bambini di tre anni e di un anno, falciati senza motivo e senza pietà, insieme a tanti altri cittadini inermi, come hanno raccontato gli storici locali Rosario Medoro e Nunzio Vicino. Lo storico Fabrizio Carloni riferisce di una strage, poche ore dopo lo sbarco, mai rilevata nella saggistica sull’argomento, riguardante una quindicina di Carabinieri Reali, in località Passo di Piazza, a circa otto chilometri da Gela. Il loro posto fisso venne circondato dagli americani e dopo un conflitto a fuoco in cui alcuni carabinieri persero la vita, visto il rapido deteriorarsi della situazione, decisero di arrendersi, ma invece di essere fatti prigionieri vennero passati per le armi. (Cfr. Fabrizio Carloni, “Gela 1943. Le verità nascoste dello sbarco americano in Sicilia”, IV edizione, Mursia, Milano 2017). Ci sono storie nella Storia che meritano di essere raccontate e ricordate. Tra queste, la vicenda di cui si resero protagonisti tre ragazzi di Gela, poco più che adolescenti. In quella tragica giornata del 10 luglio, vedendo i ranger per le vie di Gela, decisero che avrebbero fatto la loro parte. Trovarono una cassetta con tre bombe a mano rimasta per strada in mezzo ai cadaveri dei soldati che avevano combattuto durante la notte, la presero e salirono sul campanile della Chiesa Madre. Da lì, in rapida successione, tirarono le bombe a mano ad un gruppo di ranger addossati alla fiancata della chiesa. Gli americani scapparono in ogni direzione, anche i ragazzi, finite le munizioni, si dileguarono e nessuno si accorse di loro. Dopo un po’ vennero intercettati da una pattuglia, ma nessuno li collegò a quanto era successo in precedenza. In ogni caso furono condotti in un improvvisato campo di prigionia da dove uno dei tre, Francesco Zafarana, riuscì a fuggire dopo qualche ora, mentre gli altri due, Ferdinando Incardona e Rosario Cacciatore, vennero consegnati ai genitori qualche giorno dopo. Mentre a Gela la difesa costiera faceva di tutto per respingere l’invasore, da Niscemi si spostava il Gruppo Mobile E del capitano Giuseppe Granieri comprendente 12 carri “Renault” R/35 con alla testa il tenente Angiolino Navari (ovunque indicato come Angelo, anche nella lapide commemorativa, ma il suo vero nome era Angiolino). I nostri carri travolsero le difese americane che furono costrette a chiedere l’intervento dell’artiglieria navale. Furono sparati almeno 572 colpi di grosso calibro. Per fanti, bersaglieri e carristi fu un massacro, ma da quell’inferno di fuoco due carri riescono a proseguire: il primo è il carro del tenente Navari che continua ad avanzare falciando i nemici. Ad un certo punto il carro si arresta, il pilota, nel tentativo di farlo ripartire viene ucciso, ma il tenente Navari può riprendere ad avanzare; il secondo carro è pilotato dal carrista Antonio Ricci al comando del sergente Cannella. Il carrista ad un certo punto è costretto a scendere per potersi orientare, visto che l’abitacolo è pieno di fumo, ma una volta fuori viene ucciso. Il sergente Cannella prosegue ancora per poco finchè il carro viene fermato da un diluvio di fuoco. Dalle lamiere contorte Cannella, stordito e barcollante, esce fuori mentre una donna gli corre incontro abbracciandolo, prima che gli americani lo prendano prigioniero. Intanto il tenente Navari sembra inarrestabile e invulnerabile. Entra in città, arriva da solo nella piazza principale di Gela nonostante il tiro incrociato di cui è fatto bersaglio. Adesso è lì, a due passi dal Quartier Generale nemico, circondato dagli americani. Il suo carro, colpito da ogni direzione, si è fermato. Angiolino Navari esce dalla torretta con la pistola in pugno, ma viene subito freddato. Nella piazza scende un silenzio irreale. Gli americani sono storditi e ammirati dal coraggio del giovane ufficiale italiano. La lapide apposta in piazza Umberto recita:

“In questa piazza addì 10 luglio 1943 nella impari lotta per la difesa del patrio suolo il s. tenente carrista Navari Angelo cadeva da eroe. Il suo carro blindato fu a lui arma gloriosa e bara pietosa. Nel XX anniversario della morte a perenne ricordo Gela pose”.

A Navari venne riconosciuta la medaglia d’argento al valor militare alla memoria con la seguente motivazione:

“Navari Angelo di Agostino da Forte dei Marmi (LU), nato il 04/09/1917, Tenente del 131° Reggimento carristi: Comandante di un Plotone di carri armati durante un furioso contrattacco per la riconquista di un centro abitato, si slanciava con i suoi carri decimando le file avversarie. Fatto segno di nutrito fuoco d’artiglieria, che colpiva in pieno il suo carro, non desisteva dalla lotta, ma continuava a sparare finchè interamente avvolto dalle fiamme immolava la sua giovane vita per la maggiore grandezza e gloria della Patria. Gela 10 luglio 1943”.

Nota di Pier Luigi Villari: “Nonostante la proposta dei superiori e la petizione, promossa dal prof. Nunzio Vicino con le firme di 7.000 gelesi non fu possibile ottenere la concessione della m. oro né per per il ten. Navari né per il c.m. Pellegrini anche a causa dell’ingiusta direttiva, emanata negli anni quaranta, che tendeva a declassare o a non concedere alte onorificenze”.

Cesare Pellegrini era impiegato di banca, Angiolino Navari era maestro avendo frequentato l’Istituto Magistrale. Entrambi toscani, caddero a Gela il 10 luglio 1943 per difendere la Patria. Sono entrati nella leggenda e il loro ricordo “si radicò nell’immaginario popolare – scrive Andrea Augello nell’opera citata – anche diventando motivo d’ispirazione per le ballate dei cantastorie. Come il paladino Orlando o il principe Tancredi, i due eroi della difesa di Gela divennero protagonisti dell’epica popolare, entrando così in quel particolare registro collettivo, quasi indelebile, che chiamiamo tradizione. Per quanto siamo riusciti ad accertare, la prima esibizione pubblica di cantastorie, di cui si abbia notizia certa, avente per argomento la ballata di Angelo Navari, ebbe luogo a Forte dei Marmi il 16 maggio 1965, in occasione di una celebrazione organizzata dalle autorità comunali in ricordo dei due caduti versiliani. Autore e interprete un nome noto nel folklore siciliano: Francesco Paparo, in arte Cicciu Renzinu, di Paternò. In quella circostanza fu intitolata una piazza della cittadina ad Angelo Navari. Fu proprio Nunzio Vicino, che guidava una delegazione proveniente da Gela, a rievocare le fasi salienti della Battaglia”. Oltre al Gruppo Mobile E, la mattina del 10 luglio contrattaccarono il terzo battaglione del 33° Reggimento fanteria della “Livorno” proveniente da Butera, comandato dal ten. Col. Bruni e reparti della “Hermann Goering” provenienti dall’area di Caltagirone. L’avanzata della “Livorno” venne fermata dal fuoco incessante dell’artiglieria nemica presso Monte Poggio Lungo e dopo ingenti perdite gli uomini di Bruni furono costretti a ripiegare; la “Hermann Goering”, tra ritirate e furiosi contrattacchi, impegnò gli americani per tutta la giornata tanto che nel pomeriggio riuscì a catturare molti prigionieri, tra cui un alto ufficiale statunitense, il colonnello Schaefer, soprannominato “King Kong”. Alla fine, però, anche la “Goering” dovette ripiegare. La reazione difensiva del 10 luglio ebbe un’efficace azione di contenimento degli invasori mettendone anche in risalto, nonostante la schiacciante superiorità numerica e tecnologica, i limiti e i loro punti critici. Il generale Guzzoni aveva già predisposto la grande offensiva per l’indomani che, come vedremo, fu a un passo dal ributtare a mare gli americani. Intanto, nel settore di competenza dell’armata britannica, i numerosi atti di valore ed eroica resistenza dei soldati italiani che in alcune zone si protrassero fino a notte, furono sovrastati dalla vergognosa caduta della piazzaforte di Augusta-Siracusa che procedette all’autodistruzione delle batterie costiere e quindi alla resa senza combattere. L’impatto psicologico fu enorme e buona parte della cattiva propaganda che si è fatta sul nostro esercito e sulla Campagna di Sicilia dipende proprio da questo triste episodio. Sulla faccenda sono stati versati, come si suol dire, fiumi d’inchiostro e non è questa la sede per approfondire la questione. Ricordiamo soltanto che il primo ad accusare esplicitamente i vertici di “Supermarina” di codardia, spionaggio e tradimento fu Antonio Trizzino, giornalista ed ex ufficiale dell’aviazione, nel libro “Navi e poltrone” pubblicato da Longanesi nel 1952. Trizzino fece nomi e cognomi, accusando gli ammiragli Franco Maugeri, responsabile dell’Ufficio informazioni, Priamo Leonardi, comandante della piazzaforte di Augusta-Siracusa, Gino Pavesi, comandante della base di Pantelleria. A proposito di quest’ultimo, nel suo famoso libro “Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota”, Benito Mussolini scriveva: “L’ammiraglio Pavesi aveva mentito; oggi si può dire: aveva tradito. Non furono nemmeno demoliti gli “hangars” sotterranei e fu lasciato quasi intatto il campo di aviazione. Peccato che il plotone d’esecuzione non abbia raggiunto il primo in ordine di tempo degli ammiragli traditori, che dovevano dopo pochi mesi perfezionare il tradimento nella più vituperevole forma: consegnando l’intera flotta al nemico”.

11 LUGLIO: IL CONTRATTACCO DELL’ASSE E IL SACRIFICIO DELLA “LIVORNO”.
Guzzoni organizza una controffensiva in direzione Siracusa-Augusta per scongiurare che l’8^ Armata dilaghi nella piana di Catania, mettendo insieme la Divisione “Napoli” con i tedeschi del gruppo Schmalz. Altra controffensiva dovrà dirigersi su Licata con la 207^ divisione costiera integrata da gruppi mobili e tattici. Ma il vero colpaccio Guzzoni vuole tentarlo su Gela. Qui dovranno attaccare simultaneamente la “Hermann Goering” e la “Livorno”. La sera del 10 luglio i due comandanti, il generale tedesco Paul Conrath e il comandante della “Livorno” generale Domenico Chirieleison, vennero convocati presso il Comando di Piazza Armerina per definire i dettagli dell’operazione. Il piano di attacco prevedeva che sia la “Goering” che la “Livorno” procedessero organizzate su tre colonne con un’azione a tenaglia da est e da ovest. Dalle posizioni di Monte Castelluccio, la colonna comandata dal tenente colonnello Dante Ugo Leonardi, integrata dai resti del Gruppo Mobile E, mosse all’attacco alle 6,30 travolgendo le prime linee americane. Anche la colonna proveniente da Butera, comandata dal colonnello Mario Mona, era riuscita ad arrivare nelle immediate vicinanze dell’abitato; intanto avanzavano anche i poderosi carri “Tigre” tedeschi arrivando a pochi chilometri dalla città. Scrive il generale Faldella, Capo di Stato Maggiore di Guzzoni: “Erano le 11,30. Il Gen. Patton, com.te della 7^ Armata americana, trasmise per radio alla 1^ div. l’ordine non cifrato di prepararsi per il reimbarco. La trasmissione fu intercettata dagli operatori del quartier generale della 6^ Armata dove si ebbe l’impressione che la nostra controffensiva avesse avuto pieno successo”. (Emilio Faldella, “Lo sbarco e la difesa della Sicilia”, L’Aniene, Roma 1956). Quando sembrava di poter ributtare a mare il nemico, la situazione venne capovolta dai cannoni delle poderose navi da guerra, dalle incursioni aeree e da unità corazzate americane provenienti da Licata e Scoglitti. Nel pomeriggio e nella serata le colonne italo-tedesche furono costrette a ripiegare. La controffensiva era fallita. Poteva andare diversamente? Quello che mancò nel momento decisivo della battaglia fu l’intervento di truppe di riserva e di rinforzo che non c’erano. La storia non si fa con i se, ma “se” il generale Albert Kesselring (capo del gruppo di armate Sud dell’Italia meridionale) avesse dato ascolto al generale Guzzoni e non avesse inutilmente dislocato la “Sizilien” nella Sicilia occidentale, forse la battaglia di Gela avrebbe avuto un altro esito con sviluppi imprevedibili sul prosiego della Campagna di Sicilia. Il costo umano di quella controffensiva fu spaventoso: i tedeschi persero 30 ufficiali e 600 solfati su un totale di 8700 effettivi, ma la divisione “Livorno” venne praticamente distrutta perché le perdite furono di 214 ufficiali e 7.000 tra sottufficiali e truppa tra morti, feriti e dispersi su un totale di 11.400 uomini. I superstiti della colonna Leonardi ripiegarono sulle posizioni di partenza, su monte Castelluccio dove combatterono per tutta la notte. Al mattino del 12 luglio, dopo aver combattuto per 24 ore di seguito, aver sparato gli ultimi colpi, aver lanciato le ultime bombe a mano, vennero sopraffatti da una valanga umana proveniente da ogni parte. Anche il Comandante Leonardi venne catturato e avviato alla prigionia. Dante Ugo Leonardi fu promosso Colonnello per Merito di Guerra. Rientrato dalla prigionia, concluse la sua carriera militare con il grado di Generale di Corpo d’Armata. Nel 1947 pubblicò il suo memoriale “Luglio 1943 in Sicilia” edito da Modenese e scritto in onore della verità storica e degli eroici combattenti in Sicilia. Alle sue parole, scolpite nella Stele commemorativa collocata su monte Castelluccio nel quarantesimo anniversario della battaglia, dedichiamo la conclusione di questo nostro lavoro:

“… Su monte Castelluccio ho innalzato un monumento ai miei morti. Ai piedi di esso ho posto una lampada votiva sempre accesa che io solo vedo come io solo vedo il monumento. Questa lampada è il mio cuore. Io non potrò mai spegnerla finchè sarò in vita perché io soltanto so quanto grande e quanto glorioso sia stato il loro sacrificio…”

©Salvatore Marotta

Luglio 2023

BIBLIOGRAFIA

  1. Augello, “Uccidi gli italiani, Gela 1943, la battaglia dimenticata”, Mursia 2009.

F. Bandini, “Lo sbarco in Sicilia”, Mursia 2011.

F. Carloni, “Gela 1943, le verità nascoste dello sbarco americano”, Mursia 2011.

E. Costanzo, “Sicilia 1943”, Le Nove Muse, Catania 2003.

E. Faldella, “Lo sbarco e la difesa della Sicilia”, L’Aniene, Roma 1956.

G. Iacono, “La battaglia di Gela, 10-11 luglio 1943, due giorni vissuti da eroi”, Rassegna dell’Esercito numero 6, NOV-DIC 2014.

D.U. Leonardi, “Luglio 1943 in Sicilia”, Società tipografica modenese 1947.

N. Vicino, “La battaglia di Gela, 10-12 luglio 1943”, Istituto Gualandi, Firenze 1967.

P.L. Villari, “Husky” 10 luglio 1943, IBN, Roma 2006.

P.L. Villari, “L’onore dimenticato” IBN, Roma 2019.

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