Chi ordinò l’uccisione di Giovanni Falcone?

Chi ordinò l’uccisione di Giovanni Falcone?

Oggi 23 maggio cade l’anniversario dell’uccisione da parte di cosa nostra del giudice Falcone. E per questa ricorrenza si celebrerà a Palermo la Giornata di Legalità in memoria delle vittime innocenti di mafia e saranno presenti più di 50.000 studenti provenienti da tutta Italia per l’evento intitolato “Palermo chiama Italia”.

Ma ripercorriamo insieme la giornata di quel 23 maggio 1992, nella quale ancora oggi, si cercano indizi che possano portare a delle risposte su certi aspetti della vicenda e per far ciò bisogna partire dalla ricostruzione di alcuni passaggi di qualche anno prima dalla maledetta strage. Capaci

Dopo quasi 24 anni dalla strage in cui fu coinvolto il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, a parlare è Gioacchino la Barbera, il boss-regista della strage di Capaci, che in un’intervista del 19/09/15 a La Repubblica ha rivelato nuovi dettagli importanti. “Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina e sapevamo che il giudice (Falcone, ndr) sarebbe arrivato di venerdì o di sabato” – ha spiegato la Barbera – “Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima”. Ma oltre a lui e agli altri boss sulla collina pronti a premere il telecomando, continua la Barbera: “c’era un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri… Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l’infiltrato”.

Si pensa infatti, che l’agente Piazza sia stato tratto in inganno con una banale scusa da un altro ex boss, Francesco Onorato, che lo condusse nel mobilificio dello stesso Troia dove fu strangolato e sciolto nell’acido. Dell’agente non si seppe nulla, da nessun organo di Stato e neppure dal Sisde, il Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica, di cui il giovane faceva parte. Addirittura, gli stessi organi dirigenziali del Sisde, arrivarono a negare che il giovane ne facesse parte, finché il giudice Giovanni Falcone non si occupò direttamente delle indagini.

Poi la Barbera parla di Nino Gioè, capomafia di Altofonte e stretto collaboratore di Riina e Leoluca Bagarella. Di Gioè si dichiarò da subito il suicidio in cella il 28 Luglio del 93, dopo le stragi di Roma e Milano, ma successivamente, anche per diversi indizi e strane ferite sul corpo, si parlò di un omicidio voluto da forze esterne a Cosa nostra, che temevano le pericolose dichiarazioni che Gioè avrebbe potuto rivelare come collaboratore di giustizia, in quanto era un profondo conoscitore di fatti e segreti riguardanti le stragi e dei protagonisti che vi parteciparono direttamente o indirettamente.

Altro campo molto dibattuto e attuale tema di cronaca è sicuramente quello sui rapporti tra mafia e politica, dell’infiltrazione della mafia all’interno delle istituzioni e infine di presunte trattative tra Stato e mafia.

A tal proposito la Barbera dichiara: “so di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani, i loro nomi sono già stati fatti più volte”. Poi cita anche l’omicidio Lima, in cui l’ex boss conferma che “ci fu una collaborazione dei servizi segreti. C’erano uomini dei servizi su Monte Pellegrino”. Riferendosi invece agli anni 80, afferma che l’omicidio Mattarellafu voluto da politici” mentre il generale dalla Chiesa fu “ucciso per fare un favore”.

Sull’omicidio dell’eurodeputato DC Salvo Lima invece, si è dichiarato esecutore il boss pentito Francesco Onorato, che durante una deposizione nel processo sulla Trattativa Stato mafia del novembre 2013, ha riportato tutti i dettagli della sparatoria avvenuta la mattina del 12 marzo del 92.

Da lì iniziò, subito dopo le condanne del maxiprocesso, la resa dei conti della mafia nei confronti di alcuni politici, in conseguenza della rottura dei patti prestabiliti. “I politici prima hanno fatto fare le cose a Riina poi lo hanno mollato” – ha affermato Onorato durante le sue deposizioni – “prima i signori Andreotti e Craxi ci hanno fatto ammazzare dalla Chiesa, poi si sono andati a nascondere”. E per quei patti traditi, secondo la ricostruzione, Riina avrebbe ordinato l’uccisione di Lima, di Andreotti, dei loro rispettivi figli, e poi anche degli ex ministri Mannino (DC) e Martelli (PSI).

Più volte si è parlato delle strette relazioni tra Cosa nostra e la Democrazia Cristiana, successivamente, intorno agli anni 86-87 (anni in cui si istituì il maxiprocesso a Palermo), il Partito socialista e il Partito radicale lanciarono una campagna in difesa dei diritti degli imputati e nelle elezioni di quegli anni, riuscirono entrambi ad aumentare di molto i loro voti in Sicilia.

Come affermato più volte da tanti penditi, tra cui lo stesso Onorato, ritenuto tra i più affidabili collaboratori di giustizia, il fenomeno dell’aumento dei voti dei partiti come il PSI di Craxi, è da attribuire al dirottamento di voti deciso dagli uomini d’onore siciliani dalla DC al PSI, visto che la prima secondo loro non aveva mantenuto tutti gli impegni presi. E proprio su quelle stesse elezioni dell’87, l’ex boss Onorato riporta ai magistrati: “fui io all’epoca a prendere 200 milioni per finanziare Claudio Martelli. Martelli l’abbiamo fatto diventare noi ministro di Grazia e Giustizia” (riferendosi prima alla rielezione di Martelli alla Camera dei deputati nell’87 e poi alla nomina di ministro nel governo Andreotti del 91, ndr).

Poi, come promesso in campagna elettorale, il PSI promosse in Parlamento una serie di riforme tese ad aumentare le garanzie degli imputati, che si riveleranno però dei veri e propri ostacoli ai processi di mafia. Difatti, circa 3000 detenuti già condannati in primo grado nel corso del maxiprocesso conclusosi nel 1987, tra cui molti boss, riuscirono ad ottenere la scarcerazione l’anno successivo.

Questo però, in parte è da attribuire a degli importanti passaggi precedenti.

Giovanni Falcone, era stato il giudice designato per l’elezione a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, per sostituire il giudice uscente Antonino Caponnetto. Ma al Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), dopo aver assicurato i numeri alla candidatura di Falcone, gli avversari si mossero dietro le quinte e al momento della votazione rivelarono il loro inganno. Prevalsero infatti, i voti per Antonino Meli, giudice della Corte d’appello di Caltanissetta con quasi nessuna esperienza di indagini di mafia. Falcone si rese conto che da quel momento sarebbe stato un bersaglio molto più facile da colpire per la mafia, ma continuò il suo lavoro. Paolo Borsellino invece accettò il posto di procuratore della Repubblica a Marsala.

Foto 1Così, dopo quasi un anno dalla chiusura del primo grado di quel maxiprocesso storico, in cui per la prima volta in Italia e nel mondo, si era riusciti ad infliggere delle condanne così forti ad un’organizzazione criminale di quella portata, il grande lavoro del pool antimafia di Palermo, istituito dal giudice Rocco Chinnici, poi assassinato e sostituito da Caponnetto, affiancato da Falcone, Borsellino e altri magistrati, fu in seguito un lavoro quasi perso sotto la guida del neo eletto Antonino Meli.

Dall’elezione di Meli in poi si parlò di “demolizione” vera e propria del pool antimafia. Meli infatti tornò ai metodi tradizionali, interrompendo di fatto il percorso precedente che aveva portato i magistrati ad avere una visione globale di Cosa nostra, in modo da conoscere e interpretare anche gli scenari più nascosti, per riuscire a colpire la mafia in maniera efficace.

Paolo Borsellino a quel punto, rischiando anche seri provvedimenti disciplinari, denunciò con un’intervista il tentativo di smantellamento di quel pool antimafia che aveva contribuito a costruire con tanti sacrifici, assieme a Caponnetto, a Falcone e ai loro colleghi. Il CSM avviò subito un’indagine sulla situazione a Palermo. Falcone allora, corse in soccorso dell’amico Paolo e alzò la posta con la presentazione delle proprie dimissioni e la richiesta di trasferimento in un altro ufficio.

La scelta di Falcone che confermava le denunce di Borsellino, era dovuta anche alle grandi difficoltà che riscontrava nello svolgimento del suo lavoro con gli uffici, con la gestione di Meli e per il clima di tensione che si era creato, ma anche per gli atteggiamenti di ostilità che avevano alcuni colleghi magistrati, nei confronti suoi e dei suoi collaboratori. La vicenda poi si chiuse con il respingimento delle dimissioni del giudice Falcone, che fu costretto a sanare le divergenze con Meli e con gli uffici, la denuncia di Borsellino venne di fatto ignorata e Meli poté continuare la sua opera. Foto 2

Però la situazione a Palermo, in quella calda estate dell’89, non migliorò affatto. Falcone, uscito ancor più indebolito da quell’episodio, dovette addirittura difendersi da una serie di lettere anonime che iniziano a circolare tra gli uffici del Palazzo di Giustizia di Palermo, in cui “il corvo” (così fu soprannominato l’anonimo autore dei messaggi, ndr), accusava pesantemente il giudice Falcone di gravi irregolarità che poi si rivelarono infondate, ma evidenziavano una profonda conoscenza di particolari dettagli e di indagini riservate, per cui si sospettava che questo “corvo” potesse essere un magistrato palermitano.

Non era di certo la prima volta che si cercava di screditare l’immagine del giudice Falcone. Infatti, subito dopo la scoperta dell’ordigno inesploso posto sotto la villetta all’Addaura nel giugno dell’89, Giovanni Falcone viene immediatamente portato al Palazzo di Giustizia di Palermo e – visibilmente scosso – discute con i colleghi magistrati dell’accaduto, tra cui anche il magistrato Giuseppe Ayala. Nel frattempo, iniziò a girare voce che lo stesso Falcone avrebbe simulato quell’attentato per tornaconti personali. Da lì, sia Ayala che Falcone, iniziarono a chiedersi se realmente la mafia potesse essere l’unica responsabile di un attentato così ben architettato prima e poi a mettere in giro quelle voci ignobili.

Da lì, Giovanni Falcone iniziò a pensare che era avvenuta quella che lui definiva la “saldatura”, cioè l’accordo tra gli interessi di Cosa nostra e quelli politici.

E tutto ciò, purtroppo, fece da presagio per quello che sarebbe successo qualche tempo dopo.

Calogero Aquila

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